In principio è la
parola. Che anticipa le immagini. Tante. Che scorrono. Una dopo
l’altra. In sequenza. Obbedienti alla parola data, eppure libere
di interpretarla. Carboncino, pagina listata. Bianco e nero.
Come una pellicola. Di celluloide, s’intende. Era tanto tempo
fa. C’era una volta...
Che cosa dice quella breve "Introduzione"? sì, quella che "scorre"
dopo il titolo, l’autore, l’editore, l’anno, le dediche....?
Dice proprio così: dove si svolge quella storia (Parigi), quando
si svolge quella storia (1931), chi è il protagonista (un
ragazzo), che cosa succede a quel protagonista (“Un giorno,
scoprì un misterioso disegno che cambiò la sua vita per
sempre”). E poi, quella breve introduzione, una volta
fissato il soggetto, passa alla "sceneggiatura", disponendo il
lettore-spettatore alla lettura del romanzo-film: sta per
sorgere il sole... c’è “una stazione nel cuore della città”,
l’atrio di quella stazione, la gente, “un ragazzo che si muove
rapidamente”. E’ lui, Hugo Cabret, il nostro ragazzo.
Seguiamolo.
Hugo Cabret vive nei muri, entrando e uscendo dalle
condotte d’aria, avendo come casa una stanzetta dimenticata
sopra la sala d’aspetto della stazione. Hugo Cabret ha dodici
anni, è povero, sudicio, lacero, affamato e anche ladro, e
regola gli orologi della stazione (come se ci fosse ancora lo zio a
farlo, adesso che lo zio non c'è più) per non essere scoperto, solo e abbandonato, e finire
all’orfanotrofio (vedi Dickens).
Ma questo lo racconta la pagina scritta, riprendendo il filo
degli accadimenti, finora di esclusiva pertinenza delle
immagini. E così di seguito, in una alternanza incalzante che
non dà respiro.
Uno straordinario romanzo di cinquecentoquaranta pagine, che
intreccia testo e immagini con il medesimo intento narrativo per
dare rilievo agli indizi, disseminati nella trama e nel disegno
a carboncino, che riportano tutti agli albori del cinema, a
quella fabbrica di illusioni, di sogni e di giochi, e ai
meccanismi di cui si giovava per mettere in moto le sue
stupefacenti fantasmagorie.
Nella fattispecie, il riferimento al cinema riguarda Georges
Méliès (1861-1938), regista e produttore francese, considerato
creatore della regia cinematografica e uno dei più grandi autori
del cinema fantastico. Il nome di Mèliès compare nel romanzo,
come firma di un disegno enigmatico da decifrare. Lo scopre Hugo
Cabret, dopo tanto penare, rubare, ingegnarsi, per mettere
assieme i pezzi che servono a “dare vita” a un automa.
L’automa è il feticcio attorno al quale ruotano le vicende
raccontate. Trovato dal padre orologiaio di Hugo Cabret, nel
museo in cui lavorava, passato come testimone al figlio in cerca
dell’autore d’origine, è anche l’emblema di un’epoca che ambiva
a progetti ritenuti un po’ folli, come dare parvenza di vita ad
automi, orologi, giocattoli, carte.
Non a caso, i prestigiatori, gli illusionisti sono continuamente
chiamati in causa dai personaggi di questo romanzo. Perché,
nella storia, gli orfani dalla vita segreta e i grandi e i
bambini portati a intrighi ed equivoci, indaffarati e complici
nella parte che loro compete, concorrono tutti a ripristinare la
gloria di un artista vissuto fra l’Ottocento e il secolo scorso.
Quel Georges Méliès, che nel romanzo si fa precedere dal suo
nome e dalla sua fama, dalla sua abilità di giocattolaio e dalla
sua destrezza di prestigiatore, prima di rivelarsi come
personaggio famoso nella vita e decisivo nell’intreccio della
finzione.
Azzardando rimandi fra l’arte e la vita, provocando dissidi fra
la missione dell’una e la missione dell’altra, costruendo un
romanzo che s’avvale di immaginazione, realtà, disegno, parola e
fotografia, Brian Selznick, conosciuto finora come celebre
illustratore (vedere gli splendidi carboncini del libro),
costruisce davvero un’opera affascinante e complessa.
Già in procinto di transitare al cinema (ça va sans dire),
sarà foriera di altre tendenze?
Brian Selznick, La straordinaria invenzione di Hugo Cabret
– Un romanzo per parole e immagini, traduzione di Fabio
Paracchini, Mondadori, 2007, p.542, € 18,00 |