Varsavia 1939. Martellante, per la strada, sulla strada, ad ogni
angolo di strada la parola “ebreo”. Tu sei ebreo? E’ stato
l’ebreo! Non sono ebreo! Ebreo, nessuno e tutti. Ebreo di
nascosto, ebreo comunque. Braccato, scovato, additato,
marchiato, massacrato. L’ebreo singolo, l’ebreo e la sua
famiglia. Poi, il ghetto. Dentro. Anche Misha. Zingaro? Ebreo?
Adesso ebreo anche lui.
Per la strada, è sempre lui il più svelto. Ruba e corre. Misha
corre. Entra nel negozio, aggira i controlli e ruba. Devono
mangiare, lui e la banda. E anche i bambini ebrei che stanno
all’orfanotrofio. Devono scialare, Misha e i suoi compagni,
avere tutto quello che si può rubare. Finché si può.
Questa è la storia di un bambino che non ha passato e non ha
futuro. Perché deve avere presente. Solo presente. Deve
essere lì, nella Storia che mostruosamente costruisce se stessa,
e registrarla, come fosse strumento. Come se l’Olocausto si
compisse per lui, e per noi, sotto i suoi occhi. Davanti a noi,
che già sappiamo, ma è meglio che sappiamo ancora, e davanti ai
ragazzini che leggono e magari non sanno ed è necessario che
sappiano, l’orrore è lì che cresce, lievita. Un’altra volta.
E’ come se l’autore del romanzo volesse istituire con il
personaggio di Misha il testimone più attendibile, l’ignaro,
l’innocente, il candido, il balordo, non ancora toccato dalla
consapevolezza, senza il giudizio della sua coscienza. E così
facendo, se calca sulla categoria per meglio riuscire nel suo
assunto, ha però anche l’abilità di rendere Misha noto come
bambino vero.
Il bambino si compie nel ghetto, nelle aberranti regole del
ghetto. Il ghetto è lo spartiacque. Prima non sembrava,
adesso è.
Prima, Misha rimaneva abbagliato dalle luci delle
giostre, estasiato alle parate, abbacinato dai lustri stivaloni
(“da grande, voglio diventare ‘stivalone’”, si diceva, ammirato
della prestanza delle divise delle SS che vedeva circolare).
Prima, al suo sguardo ignaro, ciò che oro non era
riluceva; dopo, nel ghetto, anche lo stivale (quella
parte, per lui gloriosa, che andava per il tutto) diventa il
ferro che batte fino all’incandescenza dell’odio e della
distruzione.
Nel ghetto, l’umanità si sgretola, lasciando a nudo l’animale,
che ha fame e contende la preda. Anche in famiglia. Anche nella
famiglia di Janina (l'amica, un'amica conquistata), che è
diventata famiglia per Misha, anche lì da loro, dove la civiltà,
attraverso il padre dell’amica, ha conservato il suo barlume,
anche lì succede.
Poi c’è la fine. I carri, i treni, le separazioni. E Misha
adesso sa, e Misha adesso vede. E corre. Misha corre verso un
futuro di memoria.
Bisogna dire, ricordare, non far dimenticare.
(di Rosella Picech, Sfoglialibro/Biblioteche oggi, aprile
2004)
Jerry Spinelli, Misha corre, traduzione di Angela Ragusa,
Mondadori, 2004, p.216, € 9,50. |