Michael Devlin come Capitan Marvel. Se il ragazzino dice
“Shazam” si ricompone un mondo. E allora c’era una volta in
America, radio days e le canzoni di Bing Crosby, Nat King Cole,
Perry Como e Doris Day e l’orchestra di Benny Goodman o Count
Basie. I film, i fumetti, le leggende irlandesi di mamma, e Jack
London, Edgar Allan Poe, Charles Dickens e l’enciclopedia Le
meraviglie del sapere. La biblioteca di Garibaldi Street e
il cinema Venus, prima di rimettere piede al Grandview, dove
Michael era stato da piccolino con papà, quando papà c’era. E il
baseball, dei Dodgers e del magnifico Jackie Robinson, “il primo
negro nelle leghe maggiori del baseball”.
E lui, Michael Devlin, e Sonny e Jimmy, uno per tutti e tutti
per uno, come i tre moschettieri. Lui irlandese, Sonny italiano,
Jimmy polacco.
1947, Brooklyn, Ellison Avenue, il Casement’s Bar, il
negozio di dolciumi di Slovacki, la panetteria, la bottega di
Mister G.
E i teppisti, Frankie e la sua gang dei Falchi, che terrorizzano
il quartiere e dicono e fanno quello che tutti i teppisti dicono
e fanno: sputano ignoranza odio e pregiudizio, picchiano e
massacrano. Per comodo ulteriore, il capro espiatorio è lì. E’
lui, l’ebreo.
Non ci stanno Michael e la sua mamma. E anche altri, come i
veterani, che sono stati in guerra, e in Europa hanno visto.
Hanno visto e udito ancor peggio di quello che il cinegiornale
del Venus proietta prima di ogni film: le immagini dell’orrore,
della vergogna, del dolore, della bestialità dei campi di
sterminio dei nazisti, l’urlo di bambini e vecchi, di donne,
uomini e ragazzi.
Un mondo così, a Brooklyn, dove il ciclone della guerra è
passato lontano, ma ha lasciato a terra il papà di Michael e
tanti americani come lui (irlandesi, italiani, polacchi,
cattolici, ebrei, negri d’America).
Un posto così, dove forse si potrebbe anche vivere con la
speranza di un futuro, un futuro d’America, se non fosse per
loro, che vanno a caccia, tendono agguati, imbrattano di
svastiche e di scritte oscene i muri dei luoghi dove vogliono
stanare la preda.
E una volta così, a Brooklyn, America, in Ellison Avenue,
doppiato l’angolo di una portentosa nevicata, arrancando verso
la Chiesa del Sacro Cuore, per andare a servir messa, una volta
così, quella volta di fine d’anno 1946, Michael Devlin cattolico
irlandese americano, lui, il chierichetto di Padre Heaney,
divenne lo shabbes-goy di Rabbi Hirsh. La sinagoga di Kelly
Street lo raggiunse come la promessa di un miracolo.
E miracolo fu.
Michael Devlin come Rabbi Loew, suscitatore del Golem. Se il
ragazzino dice “Apriti Sesamo”, il mondo non ha più confini, il
tempo rompe i suoi vincoli, l’immaginazione guida il desiderio e
la sua realizzazione. E’ come uno spirito santo che discende.
S’imparano le lingue. Io insegno a te l’inglese, Rabbi Hirsh di
Praga; tu insegni a me, Michael Devlin, che so l’inglese e anche
il latino della messa, l’yddish e l’ebraico dei tuoi libri
sacri, e il greco, e l’aramaico di Gesù che non fu ucciso dagli
ebrei come dicono in Ellison Avenue. Le lingue del mondo. Gli
alfabeti di Dio.
Com’è piena di sogni avventurosi, meraviglie e tentazioni la
vita quando si è ragazzi, cattolici irlandesi americani, e
finalmente anche un po’ ebrei e un po’ negri. Quando si sa
l’inglese e il latino della messa, e l’orizzonte che sembrava
tutto lì, si rompe nel miracolo di altre lingue, altre fedi,
altri mondi. Perché davvero pensi che nonostante Sonny, Jimmy,
Capitan Marvel, e tutti i libri della biblioteca di Garibaldi
Street, e i film del Venus, e le canzoni della radio e i Dodgers
e Frankie Robinson, pensi che era pur sempre poca cosa la vita
prima di quel passaggio alla sinagoga, quel sabato mattina, a
fare da shabbes-goy al rabbino Hirsh.
Prima e dopo quell’incontro. Lo spartiacque. Perché varcata
quella soglia, Michael Devlin spiccò il volo che ancora non gli
era riuscito. Non per mancanza di talenti, quelli gli fiorivano
fra le dita, ma in assenza di una guida, un padre, vero e
spirituale. Ed ecco Rabbi Hirsh. E i libri, la musica, il
baseball; l’esercizio delle lingue, dell’umorismo,
dell’intelligenza, del piacere di sapere, pensando a un mondo
senza pregiudizi, senza odio, senza guerre.
Viaggiare con la mente.
E basta dire un nome, dare due coordinate, ed ecco spalancarsi
la storia. La storia in cui entri tu. Per esempio a Praga. Con
Rabbi Loew, il Golem, il perfido Taddeo, l’imperatore Rodolfo.
La Praga dei misteri della Kabbalà, degli alchimisti e dei
miracoli. La Praga del ghetto, della giovinezza del rabbino
Hirsch, di Leah, sua moglie, vittima; la Praga del dolore che
impregna di sé le piccole stanze della sinagoga. E poi dilaga da
Kelly Street a Ellison Avenue, ripetendo misfatti che si
volevano allontanare.
Pete Hamill, l’autore di Neve in agosto, indica in
Michael Devlin una vocazione salda dell’infanzia, che ha in sé,
nella sua costituzione, la forza visionaria di cambiare il
mondo. E attraverso la rappresentazione di questa potente Weltanschauung
infantile, un qui e ora, reale e immaginario,
fonda la sua “città ideale”. L’utopia di una realtà nuova, alla
quale chiedono pari diritti di cittadinanza gli eroi del
quotidiano e gli eroi del meraviglioso, uniti da un medesimo
intento, un unico proposito. Sostenere la civiltà, i valori che
ne sono a fondamento, allontanare la barbarie e il suo
corollario di intolleranza e di morte. All’interno del vero
miracolo costituito da questo romanzo.
(Recensione di Rosella Picech all' edizione Salani 2002).
Pete Hamill, Neve in agosto, traduzione di Marina
Astrologo e Massimo Birattari, Salani, 2009, p.304, Euro 10,00
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