

|
|
|
|
|
|
SPECIALE_Bologna Children's Book Fair 2017_COPERTINE
|
COPERTINE.
Narrativa, classici. In collana. Carta bianca, I Classici
Salani, Pulci nell’orecchio. In vetrina alla 54a
edizione della Fiera del Libro per Ragazzi
La
più importante manifestazione internazionale dedicata al libro e ai
contenuti per l’infanzia, la Fiera internazionale di Bologna,
riserva molto spazio all’illustrazione, con l’allestimento di
mostre, il caffè degli illustratori, i premi, ispirandosi al
principio che testo e immagine siano pressoché inscindibili nel
libro predisposto per i bambini e i ragazzi. Fin dalla copertina.
Del resto, la cura nella presentazione del libro, che passa
elettivamente dalla copertina, trova radici significative nella
applicazione illustrativa dei libri per l’infanzia. Come la grafica.
Che, nel nostro paese, vanta una importante tradizione.
A proposito della copertina, Jhumpa Lahiri, nel suo ultimo libro,
Il vestito dei libri, riportando alla sua esperienza di
scrittrice e di lettrice l’impressione suscitata dal primo impatto
con il libro, parla della copertina anche come di “divisa”. E si può
convenire con la definizione, soprattutto se il riferimento è al
libro come parte di un insieme, per esempio la collana, la
collezione in cui si colloca quel pezzo. Che, soprattutto se è
nuovo, un nuovo arrivato, annunciando la sua appartenenza come una
credenziale, chiede un via libera di lettura. A tanto serve la
riconoscibilità prodotta dal progetto di collana, che si avvale
della grafica e dell’illustrazione, oltre che del titolo
(Gl’Istrici, Carta Bianca, Contemporanea...) come elementi di un
marchio, un blasone, che distingue la famiglia, dunque una identità
di appartenenza. Ma per rafforzare il convincimento che quel singolo
libro, proprio quello, ti potrebbe piacere, serve il soccorso
dell’immagine distintiva, l’illustrazione di copertina.
Che so, un
viso, per esempio. ...
... Come il viso che campeggia sulla copertina di Grande,
nuovo romanzo della collana CARTA BIANCA di Einaudi Ragazzi,
che fin dal suo esordio ha fatto breccia nel cuore dei lettori per
le magnifiche copertine che esibiscono i suoi libri, quasi sempre
buone ambasciatrici della storia raccontata. Si vedano, per esempio,
anche la copertine di
Più
veloce del vento di Tommaso Percivale (candidato al Premio
Gigante delle Langhe) o Il viaggio di Lea di Guia Risari
(candidato al Premio Strega Ragazze e Ragazzi). Tutte disegnate da
Jacopo Bruno; a completare la cura formale, l’Art Director Francesca
Leoneschi.
Grande di Daniele Nicastro sarà presentato a Bologna.
Se lo vedi, ti viene subito voglia di leggerlo. Potere della
copertina! Sarà per via di quel radioso ritratto di ragazzino
iniziato a una prima adolescenza di scoperte golose e terribili che
vi compare, insidiato da tentacoli guizzanti, che spingono (quasi un
avvertimento, un indizio per il lettore) quel titolo, GRANDE, di
carattere magniloquente, che ha il potere di riconfermare il ruolo
della grafica, capace di riorganizzare il tutto attorno al
particolare dell’immagine. Poi lo leggi, e ti accorgi che quel
ragazzino spavaldo ma ingenuo di cui narra la storia si trasfigura
davvero nel ritratto che lo riflette in copertina. Per Luca, tredici
anni, in vacanza in un paesino della Sicilia, la mafia di cui
parlavano a scuola aveva segni distintivi ben riconoscibili, perché
il discorso fatto in classe saltava a conclusioni che includevano
dati certi, di evidenza dimostrabile. Invece, qui, adesso, nel paese
di Sicilia, di cui sono originari i suoi contestatissimi genitori,
al posto delle estorsioni di cui diceva il professore, ci sono
“scherzi” fatti a “debitori”. Di cosa? Tutto quel che vede, o vuol
vedere Luca, è di molte sfumature, nuota in una ambiguità che dà
adito a più interpretazioni. Luca, un po’ Pinocchio, circondato da
una ridda di personaggi -che ricordano da vicino Lucignolo, il gatto
e la volpe, anche il grillo parlante-, considera verità solo quella
votata alla salvaguardia dei suoi nuovi amici. Perché se sono amici,
e ti dicono che è solo uno scherzo quello che fanno e ti inducono a
fare, tu non lo chiami più “pizzo” ma scherzo, e allora scherzi
anche con te stesso e svicoli, tergiversi e poi ti rassicuri. Sono
amici, anzi “fratri”, anzi “siamo tutti di una medesima famiglia”…..
Famiglia? Per svincolarsi dalla propria, per diventare “grande”,
come i nuovi amici che minacciano, hanno motorini e maneggiano armi,
Luca sta per cadere in trappola. Della mafia vera e della propria
illusione di ciò che significa diventare “grande”.
"Non si leggono i classici per dovere o per rispetto, ma solo per
amore”, diceva Italo Calvino. Ma come si potrebbe fare per dire a
dei ragazzini -leggeteli questi classici, vi piaceranno-, senza
incomodare categorie di “dovere” che fanno sempre l’effetto di
un’orticaria?
I CLASSICI SALANI, che escono per la Fiera di Bologna, puntano su
carte sicuramente spendibili: l’impatto immediato con il classico
proposto (la copertina) e la parola garante di scrittori molto amati
dai giovani lettori (prefazione).
Per le copertine, in casa editrice, si sono rivolti a una
delle firme più importanti del book design internazionale, Gray318,
che ha realizzato fra l’altro le edizioni originali di alcune delle
più famose copertine degli ultimi anni, da Jonathan Safran Foer a
David Foster Wallace passando per Roald Dahl.
Per la prefazione dei primi titoli in libreria, si sono
affidati a
Stefania Bertola (Charles Dickens,
Grandi speranze),
Pierdomenico Baccalario (Robert Louis Stevenson,
Lo strano caso del dottor
Jekyll e del signor Hyde),
Bianca Pitzorno (Hector Malot,
In famiglia),
Giuseppe Festa (Jack London,
Zanna bianca).
Se i volumi nella veste formale si presentano solidi, rilegati, come
custodi attendibili di glorie letterarie immortali, con fregi di
copertina affidati a grafica sapiente di minimalismi e silhouette,
nella prefazione si affidano all’esperienza di lettura di ciascun
scrittore interpellato.
Ci si aspettava che la maggior parte degli autori della
prefazione ricorresse ai primi ricordi di lettura del classico
comparandoli alle impressioni dell’oggi, segnalando le difformità di
giudizio che intercorrono fra quel passato e questo presente. Non
poteva che essere così. In fondo si tratta pur sempre di letteratura
per ragazzi (non proprio e non solo, considerato che i libri
proposti sono dei classici), e probabilmente i lettori di allora,
lettori di oggi, uscivano da un’infanzia e da un’adolescenza di
letture voraci, completamente consegnati alla pagina, distanti da
quella capacità critica propria dell’esperienza di vita e di cultura
dell’età adulta. Così pensavamo. E così anche è stato. Ma le
aspettative, dopo aver letto alcune prefazioni, sono state corrette
da molte sorprese.
Per Pierdomenico Baccalario. a dieci anni, quando la
lesse la prima volta, la storia del dottor Jekyll e di mister Hyde
fu quasi una storia di iniziazione. Lo condizionò non solo
nell’indirizzo di nuove “letture sempre più spaventose” ma lo portò
addirittura a riconsiderare le fisionomie dei ritratti che
costellavano le pareti dello scalone di casa. Parenti, antenati, mai
degnati di grande considerazione furono sottoposti dal bambino di
allora ad accurate indagini per verificare se avessero “qualcosa di
tremendo di cui nessuno si era accorto prima”. Non solo. Con quella
lettura gli sembrò di avere abbandonato l’infanzia, allietata da
letture rassicuranti, ed essersi inoltrato, con il nuovo possesso di
un brivido adulto della paura, nella letteratura riservata ai
grandi. Quante spaventevoli fantasie, cresciute attorno alle letture
più disparate, negli anni a venire, fino ad accorgersi dopo molto
tempo, prendendo di nuovo in mano quel fatidico libro, di come tutto
fosse cambiato. Il perno di quel racconto non gli sembrò più il
dottor Jekill e neppure l’altra sua faccia, quel mister Hyde, che da
“gigante mostruoso” si rivelò invece “piccolino”. Il personaggio
pressoché insignificante, quell’avvocato Utterson, che venne a
sapere quasi per caso dell’esistenza del doppio dell’insospettabile
dottore, gli si rivelò nel modo sconcertante che lo porta a dire,
oggi, nella prefazione “E’ assolutamente geniale che si scopra una
delle storie più straordinarie che siano mai state scritte
attraverso il personaggio più convenzionale e noioso che si possa
immaginare”.
Alla mano Grandi speranze,
Stefania Bertola non si lascia sedurre dai ricordi d’infanzia
e addirittura scoraggia i giovani lettori da una lettura immediata
della sua prefazione, al fine di non condizionarli con il suo
giudizio, necessariamente argomentato con riferimenti precisi a
trama e personaggi. E dove finirebbe allora la sorpresa, giocando a
carte così scoperte? Non una garante a priori, Stefania. Ma una
giocatrice. Fai tu lettore la prima mossa. Fatti la tua idea e poi
confrontati. Autrice da postfazione non da prefazione.
Confrontiamoci. Voi e io. Prima voi dopo io. In questo gioco non
possiamo certo entrare ma ci auguriamo che, così sfidati, i lettori
siano numerosi e non si lascino sfuggire
questo
magnifico Dickens. E allora anticipiamo (noi che possiamo
contravvenire al divieto) qualcosa di quel che dice Stefania.
Intanto Stefania non è definibile come autrice di libri per bambini
anche se recentemente ha esordito con il romanzo
Solo Flora per
adolescenti, nel quale riversa tutta la verve di scrittrice
brillante, votata a un “rosa” contemporaneo, che rifugge le
svenevolezze, si nutre di umorismo, ironia e di un pizzico di folle,
fantastico ingrediente surreale. Bandite molte convenzioni, Bertola
punta su una versione poco conosciuta della conclusione di Grandi
speranze per sostenere la teoria che vuole Pip ed Estella come
campioni che “lottano contro il Lieto Fine del romanzo”, scalzando
la verità dal titolo, sbugiardandolo perché promette ciò che non
sarà. Nessuna speranza troverà la sua realizzazione, neppure la
centrale, la più grande, che vorrebbe che Estella si innamorasse di
Pip.…. Il dire di Stefania è suggestivo. Confrontatevi con lei!
Zanna bianca non poteva non finire nelle mani di
Giuseppe Festa, “frequentatore” di lupi. L’emozione che gli
procurò la lettura di Jack London la prima volta che lo lesse si
rinnovò ancor prima di aver ripreso in mano il libro per questa
prefazione. Naturalista e scrittore, Festa ci ha raccontato lui
stesso storie di lupi (per esempio in La luna è dei lupi)
dopo averli effettivamente incontrati, aspettati con trepidazione e
pazienza sui varchi e nelle valli del nostro Appennino. Di quei
lupi, di cui racconta nei suoi romanzi, Festa seguì effettivamente
le tracce, accompagnandosi agli studiosi di comportamento animale, e
fece con loro le sbalorditive scoperte, già accertate dagli etologi,
che contraddicono il luogo comune del lupo come creatura unicamente
feroce e famelica. Sul campo, Festa verificò l’interessante
organizzazione sociale del branco, la cura per i piccoli e per i
propri simili, l’abnegazione anche, e il gesto d’amore. Nei suoi
romanzi , come oggi in questa prefazione, si avverte quasi una
perorazione nei confronti di un animale tanto bistrattato dalle
dicerie dell’uomo. Ma riportandosi a London e a suoi bei libri sui
lupi (vedi anche questo), Festa confida la sua sintonia con lo
scrittore, rispecchiandosi pienamente con quello “spirito selvaggio”
da lui invocato e teorizzato, che riconduce l’uomo al respiro delle
sue più lontane origini.
Un regalo per Lucie, s’intitola il racconto che Bianca
Pitzorno scrive nella prefazione di In famiglia, e di
racconto si tratta, nello stile che ci fa amare questa autrice,
vivace, spiritosa e colta, che non manca mai di precisione nelle sue
incursioni storiche. Che Hector Malot, l’autore che le è stato
affidato, sia vissuto in una Francia di pieno e lungo Ottocento lo
si evince dall’interno della narrazione, ricca di particolari,
riferimenti documentabili, una “lezione” di storia che diventa
racconto e come tale si apprezza. Narrando dell’autore e dei libri
per ragazzi che scrisse, e di questo in particolare, dedicato alla
figlia come dono di nozze, Bianca fa rivivere papà Malot. Che, da
scrittore di successo divenne anche scrittore di libri per ragazzi
per amore della figlia. Particolarmente attento a una infanzia
tribolata dalla miseria, dall’assenza di diritti e di tutela, Malot
prelevò dalla realtà storica in cui viveva i caratteri dei suoi
personaggi, proponendoli nelle loro svantaggiate condizioni anche ai
bambini privilegiati. Soprattutto a sua figlia. Scrisse Senza
famiglia, ed è per questo che è conosciuto anche oggi. Ma la
vicenda di Remy, citata, se non ricordata ancora da molti, aveva al
suo centro un ragazzino e risultò poco interessante per la bambina
che a quel tempo era Lucie. Questa notazione famigliare spinge
Pitzorno ad allargare l’orizzonte del suo discorso che, dalla
situazione intimistica del rapporto del padre con la figlia, imbocca
un excursus d’epoca su ciò che si produceva nell’ambito
dell’editoria di libri per ragazzi. Uno spaccato storico che
sottolinea quanta poca attenzione si desse alla lettura femminile,
trascurando di allettarla con romanzi che avessero per protagoniste
delle eroine. Questo passaggio del racconto diventa cruciale per
descrivere l’influenza che il clima dei tempi e alcuni libri in
particolare ebbero nell’indirizzare papà Malot a scrivere il libro
“adatto” per sua figlia. Che poi scrisse, intitolandolo In
famiglia, con protagonista
Perrine, “ una ragazzina coraggiosa e piena di iniziativa… una
piccola Robinson che deve cercare di sopravvivere non in un’isola
deserta ma in una Parigi piena di delinquenti e in una regione
industriale dove la legge spietata del profitto comincia a farsi
sentire”. Davvero un pieno riscatto per tutte le eroine mancate
degli altri romanzi.
Nel protagonismo che abbiamo riservato alla copertina,
risulta estremo, quasi provocatorio, il progetto che realizza la
nuova collana Pulci nell’orecchio di Orecchio acerbo curata
da Fabian Negrin. Prime uscite per Bologna. Tre. Prendiamo, non in
ordine di uscita e neppure a caso, un volumetto (11x18, 40 p.) che richiama
prepotentemente l’attenzione. Un viso vi campeggia, anzi divora
tutto lo spazio riservato alla copertina. Lui solo. Senza titolo,
senza indicazione alcuna. Curioso. Per saperne di più bisogna
voltarlo il volumetto. Ed ecco declinato, sul retro, titolo, autore,
illustratore, casa editrice. In una grafica che si consegna tutta
intera nella sua eleganza al possibile lettore. Sembra una
valorizzazione estrema dell’illustrazione da una parte, della
grafica dall’altra. Quasi a separarle, per indurre chi prende in
mano il volume a “leggerle” attentamente. Ad aspettarsi che qualcosa
di speciale debba succedere aprendo quel libro così speciale. E
qualcosa succede in
CANITUCCIA di Matilde
Serao. Come succede negli altri volumi di questa nuova collana
Pulci nell’orecchio curata e illustrata da
Fabian Negrin
per orecchio acerbo. Tutti
portatori delle caratteristiche formali menzionate. Anche
REX di D.H. Lawrence e
Lo zio del barbiere e la tigre che gli mangiò la testa
di William Saroyan.
Nella loro sostanziale
distinzione, questi primi classici della collana rivelano alcune
costanti. Come se fossero stati scelti e accostati per alcuni motivi
ricorrenti nella narrazione: il protagonista bambino, l’animale
dell’incontro fatidico, l’ottusità dell’adulto nel comprendere
l’inclinazione infantile nei confronti dell’animale.
Rispettivamente, così come sono stati elencati per titolo.
Canituccia
esce dalla passione sociale della “più grande pittrice di folle che
ebbe il nostro verismo”, Matilde Serao, ed è una bambina piccola e
misera, di una miseria che annulla ogni speranza. Solo Ciccotto, il
maialino che razzola nel fango accanto a lei, legato da una corda
che lo costringe a strattonarla, diventa motivo di vita per questa
bambina. Che deve accudirlo, accompagnarlo, pascolarlo, come fosse
pecora o cane, in una inversione frequente dei ruoli: Canituccia al
posto dell’animale e l’animale al posto di Canituccia. Ciccotto è
ben nutrito e forte, e dovrà presto “ricambiare”, Canituccia è
denutrita e debole, solo una fastidiosa bocca da sfamare. In un
paesaggio di campagna desolato, che asseconda l’indole incattivita
dei personaggi adulti, piccoli gesti dicono che Canituccia e
Ciccotto si vogliono bene. Nell’indifferenza crudele dei grandi, che
al tempo giusto apriranno il mattatoio.
In Rex, il
cane indocile e ribelle, vero figlio di quella natura non
contaminata dal progredire dei tempi che D.H. Lawrence inseguì
nell’arte e nella vita, lo scrittore riversa il ricordo di
un’esperienza infantile. Nel racconto, due bambini, un fratello e
una sorella, si vedono affidare da uno zio un cucciolo. Una palla
bianca, un proiettile animale, anarchico, rissoso. Si lasciano
travolgere da questo piccolo ciclone mal tollerato dalla mamma ma
per niente inviso al papà. Se i sentimenti dei bambini, espressi
anche nei contatti fisici, che rendono ebbro e folle l’animale, sono
autenticamente volti a un’amicizia, a un amore, che spesso si
rivelano impossibili, l’atteggiamento dei genitori appare
altalenante. Più accondiscendete l’umore del padre, stizzito invece,
seppur segretamente divertito, quello della madre. E’ un gioco di
indisponibilità e di possibili aperture, quello condotto dall’autore
nel suo racconto, fra fughe e ritorni del cane, soggetto seducente e
ineducabile, fino alla fine.
Non
so quanto tempo sia trascorso da quando avete letto l'ultima volta
La commedia umana
o uno, uno soltanto, dei racconti di William Saroyan. Non so
se vi siano rimasti impressi o ne abbiate un pallido ricordo. A me
fecero impressione allora, e ancor più oggi, davanti a questo
piccolo gioiello. Alla sollecitudine della sua scrittura, semplice,
dialogica, modernissima, che attinge alla vita e contemporaneamente
la scorda, la fa bella e al contempo terribile, come il canto del
passero, che prima di farsi il nido nella chioma selvaggia del
ragazzino del racconto, canta, e sembra ridere e piangere. Ma questi
sono sogni sognati da una testa condannata da tutti? o pensieri
profondi e poetici infusi da un talento profondo e poetico?
Tagliati i capelli, diceva la signorina Gemma (presumibilmente la
maestra) al ragazzino, io narrante del racconto, e così Krikor, suo
fratello, ma anche l'uomo d'affari che gli comprava il quotidiano, a
lui che faceva lo strillone. Nulla da fare. Solo quando il passero,
che gli infuse quei sogni o quei pensieri cui abbiamo fatto cenno,
ebbe la buona idea di rifugiarsi in quello che probabilmente gli
parve un bel cespuglio, il ragazzino cedette. E questo cedimento lo
portò al cospetto di un barbiere strano, che forse s'era dato una
qualifica tanto per far sapere a se stesso e al mondo che comunque
una "targhetta" lui l'aveva. Aram, si chiamava, ed era un po'
filosofo e straordinario narratore. Della storia più formidabile,
triste e terribile che il ragazzino si fosse mai sentito raccontare.
Quella dello zio del barbiere e
la tigre che gli mangiò la testa.
Martedì 4 aprile ore 16:00 | Alla Fiera di Bologna, Sala
Melodia | Centro Servizi Blocco B 1° piano
PRESENTAZIONE della nuova serie Pulci nell’orecchio.
(di Rosella Picech, Alicenelpaesedeibambini.it, Marzo 2017)
|
|